C’è qualcosa che non va negli aeroporti. Un senso di malinconia che pervade tutto. Come se si percepisse l’assenza delle persone che ancora sono lì, con i bagagli in mano. E’ il posto dove le persone iniziano gradualmente a scomparire, prima della partenza. Credo sia questa gradualità ad atterrire. Il fatto che non si sa mai bene quale saluto, quale bacio o quale abbraccio sia l’ultimo. Che c’è sempre la possibilità di voltarsi a salutare ancora un’ultima volta, e tante più volte uno vorrebbe voltarsi quanto più lontana è la destinazione di chi parte. È come se l’istante del saluto si frazionasse in un’infinità di piccolissimi frammenti, in ognuno dei quali è racchiuso un altro sguardo, un altro abbraccio, un altro “ciao”. E il momento di salutarsi davvero sembra sempre così lontano, irreale, come se non dovesse arrivare mai, perché ci sono ancora tantissimi istanti nel mezzo. Finché a un certo punto, quasi fosse una sorpresa, ci si accorge che la persona che si stava salutando è partita davvero, che non è più qui, anche se sembrava si potesse trattenerla ancora un po’, ancora per tantissimi piccoli istanti.
Oggi c’era un’atmosfera tristissima all’aeroporto. Ma sono state due settimane pienissime, come il tempo che verrà. E presto l’aeroporto sarà di nuovo il posto dell’attesa, del ritorno, del nuovo inizio.
Dev’essere la mancanza di sonno che l’ultima notte in bianco mi ha lasciato in eredità a farmi vedere tutto un po’ più grigio di come in realtà è, e persino un po’ più grigio di questo cielo che oggi ha reso tutto ancora più difficile.
Ma le cose sono diverse da come mi sono sembrate oggi, questo lo so. Le cose sono migliori. Ora lo sono. Da un po’ di tempo lo sono.
Appena in tempo, sono migliorate, prima che io sprofondassi.
Sono qui in attesa. E questo è già qualcosa. Anzi, questa attesa per me adesso è tutto. Tutta la mia vita sta in questa breve e lunghissima attesa di un ritorno.
Perché la cosa bella è questa: che gli aeroporti sono anche i luoghi dei ritorni.
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